“E’ più difficile celebrare la memoria dei senza nome che quella degli uomini celebri. La costruzione della storia è dedicata alla memoria dei senza nome”.
Così Enrica Petrarulo, citando Benjamin, iniziava il suo bellissimo testo per la mostra “Trincee” nella galleria La Nuova Pesa dove ha lavorato per oltre 20 anni … facendo quasi tutto lei, ma invisibilmente e con discrezione, tanto che se cerchi il suo nome nel website della galleria non lo trovi, anche se ha curato varie mostre e ideato vari appuntamenti culturali della Nuova Pesa. Due giorni fa ho saputo da Felice Levini che Enrica era morta, e so da Bruna Esposito che è stato mandato un telegrafico email di 2 righe ad alcuni artisti e amici, e nessuna indicazione della data del funerale o di dove mandare dei fiori (Bruna quando me l’ha detto era davvero sconsolata) …
Il funerale è stato fatto ieri tra quattro persone, stile anno covidiano (lo stesso del grigio messaggio telegrafico) … non è allora un caso la citazione benjaminiana di Enrica, è qualcosa che riguarda lei e tutti quelli che lavorano (per gli altri) rintanati nell’ombra. E che spesso, come l’Assistente di Walser, sono più colti e dentro il dramma del sapere delle persone per cui lavorano. Basta leggere questo suo bellissimo testo (o gli altri che ha pubblicato, con il contagocce, su Alfabeta2 ( https://www.alfabeta2.it/tag/enrica-petrarulo/) per capire il suo spessore umano e culturale, e il suo sofferto impegno politico.
Ci piace ricordarla con quella figura alter ego che ha messo come immagine nel suo profilo Facebook, il ritratto di una Simone Weil giovane, emblema degli autori e filosofi mitteleuropei che amava; ma, in coda, anche con un suo ritratto che ho ritagliato da una foto in cui scompariva così, timidamente, accanto ad una persona che invece fronteggiava l’obbiettivo sorridendo “sans souci”.
A.F. 13 aprile 2021
Enrica Petrarulo, per “Trincee”, 2015
TRINCEE. Il mondo in fiamme e la morte.
“E’ più difficile celebrare la memoria dei senza nome che quella degli uomini celebri. La costruzione della storia è dedicata alla memoria dei senza nome”. E’ una citazione di Walter Benjamin, ora stampigliata su una parete di vetro nel memoriale a lui dedicato a Port-Bou (Pirenei), luogo del suo suicidio, nel 1940. Europa dieci anni dopo, gli anni della mia generazione e di molti degli artisti qui presentati: ha inizio il mito della prosperità magnifica e progressiva. I conti con il passato possono attendere: la rimozione, così si vorrebbe, è solo temporanea. Una rivoluzione e due guerre mondiali si sono consumate in un trentennio, consegnandoci un assetto tale che, per la prima volta nella storia europea, una generazione non conoscerà conflitti bellici in patria. Patria: parola risorgimentale, dalla quale il secondo Novecento avrà ansia di liberarsi, scoprendola compromessa dalla retorica nazionalista dei reduci e dei padri. Sono altri, adesso, gli scenari di guerra: l’Europa perde la sua centralità, e una generazione si dichiarerà internazionalista. Sappiamo come è andata, fino alla paralisi di quel pensiero che avrebbe voluto ri-disegnare e ri-definire non più i confini del mondo, bensì le sorti stesse dei suoi abitanti. Ma la storia ha smarrito qualsivoglia direzionalità che possa orientarla verso la sua costruzione. Davvero il suo angelo può soltanto guardare sgomento le macerie che l’umanità ha prodotto. Rendere giustizia ai senza nome non si può, non è compito che possa essere garantito dalla storia: solo nella memoria le vittime degli orrori e del sangue della storia europea conosceranno una loro redenzione. E quanto in là può spingersi la nostra memoria, fino a contenere la memoria di altri che sono stati prima di noi? Probabilmente giusto un secolo, precisamente la distanza che intercorre tra l’oggi e l’entrata in guerra di quel primo conflitto mondiale con il quale si inaugura il ventesimo secolo. La generazione che per prima non conoscerà la guerra ascoltò eroiche o angosciose o rabbiose narrazioni dell’ultimo conflitto da un padre che, a sua volta, ricevette come lascito le narrazioni del conflitto precedente. E’ così che, per loro tramite, la prima guerra mondiale è ancora materia che informa la nostra memoria e il nostro presente. Italia 1915, ancora sulla parola Patria. Una nazione e la sua lingua, questo dovrebbe essere, ma non è questione di unificazione: qui conta l’autocoscienza della parola medesima. Occorre capire come quella parola risuonasse all’analfabeta contadino, o pastore, o spaccapietre, che neppure sapeva di avere una patria e che ora, spogliato e strappato al poco o niente che possedeva, si trova in una trincea a combattere in suo nome. Quella patria che nulla aveva dato, se non un esercito poliziesco e repressivo, e che ora tutto chiede attraverso il dono della morte: la propria, nel sacrifico di “morire per la patria”, e ancora vent’anni dopo sarà nominata “la bella morte”, e la morte che si dà al nemico. Ma il fronte, luogo identificativo della Prima guerra mondiale, nella prossimità del faccia a faccia, avvicina il nemico come fosse un amico, un compagno; nell’affrontamento l’identificazione del nemico passa attraverso la porta stretta dell’identificazione col nemico.
E.P.